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Meditazione: Imparo a essere debole

«Egli mi ha detto: “La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza”. Perciò molto volentieri mi vanterò piuttosto nelle debolezze, affinché la potenza di Cristo riposi su di me»
(2 Corinti 12, 9)

Sono tornato a Torino quattordici anni fa con la presunzione di fare molte cose. Avevo concluso il mio servizio pastorale in Sicilia e in Calabria dove ero arrivato come uno straniero in terra straniera, ma dove ero stato accolto con affetto. Sono partito sentendomi forte: con il serbatoio di coraggio pieno e con la presunzione che, se ce la avessi fatta a Lentini e a Reggio Calabria, avrei potuto farcela anche a Torino. In questi anni ho scoperto di essere debole. Ho sperimentato la mia debolezza e quelle delle Chiese. E se devo dirla tutta: non mi piace essere debole e neppure mi compiaccio della debolezza delle Chiese.
Ma l’esperienza dell’apostolo Paolo a Corinto fu molto più dura: fortemente contestato dai suoi fratelli e dalle sue sorelle, egli sapeva che ai loro occhi era come un aborto (1 Cor 15, 8). Paolo, tuttavia, non si fa abbattere, anzi presenta le sue credenziali di buon ebreo e di servo fedele di Cristo. Inoltre, Paolo confida ai Corinti di essere stato rapito in paradiso dove ha ascoltato delle parole che non può ripetere (1 Cor 11, 23-29; 12, 1-5).
Quello di cui l’apostolo Paolo più si vanta, però, non è il fatto di avere saputo resistere e neppure della sua esperienza straordinaria: Paolo vanta di essere debole: «Se bisogna vantarsi, mi vanterò della mia debolezza», perché l’esperienza della debolezza è il modo per compartecipare alla Croce di Gesù ed è il modo per essere compassionevole con chi è debole come lui (1 Cor 11, 29), perché quello che conta non è la forza di Paolo, non è la nostra forza, ma la potenza di Cristo che riposa su di lui. Insieme a Paolo abbiamo scoperto di essere deboli, e va bene così e per tre ragioni.
La prima. Sperimentando la debolezza capiamo cosa significhi che ci basta la grazia di Dio. Dio soltanto – nell’opera e nel nome di Gesù – viene a cercarci e a salvarci; non ce la facciamo con le nostre risorse, neppure con quelle spirituali (Efes 2, 8 ss).
La seconda. Capiamo per esperienza cosa significa che la potenza di Cristo riposa su di noi. Accettando la nostra debolezza, sperimentiamo che riusciamo a fare il prossimo passo, a essere fedeli all’Evangelo perché la potenza di Cristo riposa su di noi. Siamo il sale di Cristo e le lampade che fanno brillare la Sua luce (Mt 5, 13).
La terza. Cosa rimane della nostra vita cristiana? L’amore: l’amore dato e l’amore ricevuto. L’amore che abbiamo dato senza aspettarci nulla in cambio, l’amore ricevuto come un regalo inaspettato e immeritato. Sono riconoscente per l’amore che ho ricevuto dalle Chiese di Torino, di Rivoli, Venaria e Valperga. Sono riconoscente del sostegno che ho sentito dalla Chiesa valdese, dalle sorelle e dai fratelli della Chiesa luterana con cui abbiamo fatto molte cose. Tra qualche anno sarò in grado di vedere più lucidamente anche tutte le cose belle e significative che abbiamo vissuto insieme in questi anni. Quello che adesso vedo è la buona notizia di Dio che viene a cercarci, della potenza di Cristo che riposa su di noi, del comandamento di Gesù: amatevi gli uni gli altri. L’unica cosa che rimane.

Alessandro Spanu, pastore battista

Illustrazione di Max Cambellotti

Meditazione pubblicata sul numero di ottobre 2024 del Piccolo Messaggero, il bollettino delle Chiese valdese e battiste dell’area torinese. Chi fosse interessato a riceverne copia in PDF via email può farne richiesta a segreteria@torinovaldese.org.

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