Donne e uomini di fedi diverse si mobilitano per riaffermare il bisogno di umanità e fermare l’odio e la guerra.
Quel che segue è un appello sottoscritto da ebrei e da amici del mondo ebraico, consapevoli del suo apporto, non solo alla storia dell’Occidente, ma alla coscienza universale.
Nei giorni in cui sta navigando la Flotilla verso Gaza, sentiamo di dover prendere, rispetto alle drammatiche vicende in corso, una posizione ferma, che sia premessa di ogni futuro dialogo.
Poniamo questo appello al servizio di un’azione comune, che riunisca tutti quanti, in un momento così cruciale, intendono avere cura delle sorti dell’umanità.
Senza entrare nel merito delle complesse trasformazioni dello scenario geopolitico mondiale, prendiamo atto che da sempre il conflitto in Medio Oriente ha le sue radici nell’incapacità di avere una storia condivisa. Non si è stati in grado infatti di tener conto di due realtà pur tuttavia indiscutibili.
La prima è il legame che la grande maggioranza degli ebrei ha con lo stato d’Israele: lungo i secoli un legame ideale con la terra intrinsecamente connessa alla tradizione; oggi un legame concreto di affetti e relazioni familiari, nonché di fierezza nazionale, sullo sfondo incancellabile di quell’immane tragedia che è stata la Shoah – con la costante paura che abbia da ripetersi.
La seconda realtà è che però l’edificazione dello stato ebraico è avvenuta attraverso un atto di colonialismo, che ha comportato l’emarginazione e l’espulsione di gran parte popolazione che su quella terra viveva da secoli. Laddove si tenga conto che quella terra ha per i musulmani – e per i cristiani – un valore simbolico non meno importante che per gli ebrei.
Ebbene, l’incapacità di tener conto simultaneamente di entrambe le realtà ha generato una catena ininterrotta di violenza, di cui il 7 ottobre è l’ultimo drammatico episodio, e ancor più il rifiuto di riconoscere i sentimenti, le aspirazioni e le sofferenze altrui.
Rispetto a quella situazione, incancrenitasi lungo i decenni, le vicende in corso rappresentano tuttavia un salto vertiginoso, che mina alla base qualsiasi possibilità di riconoscimento reciproco.
L’idea che lo stato d’Israele stia conducendo una guerra difensiva viene giorno dopo giorno sempre più smentita dai fatti. Non può esservi più alcun dubbio infatti che l’attuale governo israeliano stia perseguendo la definitiva cacciata della popolazione palestinese; e che per ottenere ciò non esiti a usare i mezzi più estremi, nonché la palese violazione di ogni aspetto del diritto internazionale.
Ebbene, bisogna a questo punto con fermezza dire che le azioni in corso, anziché garantire la sicurezza del popolo ebraico, sono ormai il pericolo maggiore. A ogni passo nella distruzione di Gaza e delle condizioni di sopravvivenza della popolazione della Cisgiordania, sempre più una analoga distruzione morale si consuma in Israele, nel mondo ebraico, nel patrimonio di valori di cui è portatore.
Per chi sia legato a tutto ciò, per chi ritenga che indissolubilmente vi sia connesso l’orizzonte valoriale della società moderna, non c’è alternativa: bisogna che, a tutti i costi, l’azione scellerata intrapresa dagli attuali dirigenti di Israele sia fermata. I governi di tutte le nazioni devono agire fermamente affinché la vicenda in corso si interrompa.
Si sono ormai oltrepassate tutte le linee che custodiscono l’umano. Nessuno potrà dire che non sapeva.
La misura della catastrofe morale che si sta verificando è data dal fatto che lo stato d’Israele viene oggi apertamente accusato di genocidio. Ebbene, di fronte a quell’accusa ci sono due possibilità. La prima è di respingerla ostinatamente, attribuendola alla propaganda altrui, rifiutando in questo modo di vedere la fame, l’espulsione e i morti: scene che minano ogni credito e contribuiscono al crescere di un’ostilità profonda – che davvero può dar luogo a un nuovo antisemitismo.
Oppure si tratta di avere il coraggio di riconoscere l’orrore, sottrarsi alla complicità e salvaguardare i valori fondamentali dell’ebraismo.
Se c’è un senso nella particolare elezione di cui il popolo ebraico si sente originariamente investito, non è in un privilegio che lo pone al di sopra di chiunque altro, ma in una responsabilità specifica verso le sorti comuni, e addirittura in un particolare amore e rispetto per la vita.
Pensando allora alla promessa con la quale ottant’anni fa si è creduto di poter edificare un mondo liberato dall’orrore, è il momento di riprenderla con forza in tutta la sua portata universale. “Mai più” deve voler inequivocabilmente dire “mai più per nessuno”.
E l’ebraismo è il terreno spirituale di Gesù, e i suoi profeti sono accolti e riconosciuti dall’Islam. E il suo Dio non è quello degli eserciti sterminatori, non dei superbi ma degli umili e dei miti. E quel che c’è di più profondo e autentico nella civiltà moderna si connette alla liberazione dalla schiavitù d’Egitto, al richiamo dei profeti, al discorso della montagna.
Questo è anche l’inestimabile tesoro a cui guardò Gandhi, e a cui devono poter guardare i popoli non occidentali che oggi riprendono il loro posto nella storia.
È un tesoro che le bombe possono solo distruggere, e fragili imbarcazioni cercano di salvare. E noi, in tanti, di ogni continente e tradizione, vogliamo con tutte le nostre forze in questo momento dire: mai più, per nessuno.