Introduzione di Elisabetta Ribet all’assemblea di chiesa del 20 maggio 2025
Premessa.
Ringraziando chi mi ha dato l’incarico di aprire questa Assemblea e chi mi ha aiutata a preparare questo mio intervento, condividendo informazioni, documenti ed esperienze, ci tengo sin d’ora a dire che, per quanto preparandomi meglio sulle questioni che ci portano qui oggi abbia avuto modo di chiarirmi, almeno in parte, le idee sulla questione di quali siano o possano essere ruolo, missione e presenza della cultura protestante a Torino, non desidero affatto approfittare di questo tempo per fare dichiarazioni di voto o mostrare una presunta “vera via” verso cui dirigerci insieme. Non è questo il mio ruolo, né tantomeno la mia convinzione. Per questo leggerò quello che dirò: per rispettare i tempi che ci siamo dati e soprattutto per far sì che chiunque lo richieda possa averne copia.
Niente rette vie, quindi: ho interpretato il compito che mi è stato affidato, piuttosto, come quello di mettere sul tavolo alcuni elementi di riflessione generali ed alcuni elementi propri del contesto nel quale siamo tutti e tutte chiamati a rendere la nostra testimonianza qui in città e al fianco di altre Chiese e soggetti che portano sul territorio la sensibilità e la prospettiva propri del Protestantesimo.
D’altra parte, mi rendo benissimo conto del fatto che non è di certo in questa sede che siamo chiamati ad una sessione di studio approfondito sulla storia e sulla struttura del pensiero protestante negli spazi pubblici.
Sappiamo benissimo, infine, che se oggi siamo qui è perché qualche settimana fa, nel contesto dell’Assemblea di Chiesa finanziaria, è stato proposto e votato un ordine del giorno che chiedeva questo incontro perché stiamo vivendo una situazione di conflitto, di sofferenza e di incomprensione attorno alla questione della presenza culturale in città.
A fronte di queste dinamiche, la prima parola evangelica che viene in mente è quella di Marco 3:24, 25 e paralleli:
“Se un regno è diviso in parti contrarie, quel regno non può durare. Se una casa è divisa in parti contrarie, quella casa non potrà reggere”.
E allora, care sorelle e cari fratelli, rendo grazie: perché le nostre Chiese e le nostre strutture sono convinte dell’importanza del ruolo fondamentale che giocano le assemblee, e perché, una volta ancora, abbiamo la possibilità e gli strumenti per affrontare le questioni discutendone insieme, e cercando insieme delle soluzioni che ci aiutino ad uscire dalle situazioni di sofferenza: non solo per stare meglio, come singoli e come comunità, ma anche perché la testimonianza, appunto, che ci è affidata possa essere forte, bella, di esempio.
Chiedo clemenza, allora, a chi conosce “la storia” molto meglio di me, ed incoraggio chi sta cercando di capire, chi si chiede se può osare chiedere maggiori informazioni, a farlo, a non sentirsi meno in diritto, in questa assemblea, di coloro che, fino ad ora, hanno portato e portano responsabilità ed incarichi.
Il nostro obiettivo principale, in questa sede, è che ciascuno, ciascuna possa giungere ad un sufficiente livello di consapevolezza, e che insieme possiamo guardare e fare qualche passo in più verso l’orizzonte ampio della nostra vocazione comune: quella di cercare il bene della città (Ger 29:7), e di essere “sempre pronti – come scriveva l’apostolo – a render conto della speranza che è in voi a tutti quelli che vi chiedono spiegazioni” (I Pi 3:15).
Quale testimonianza?
Le prime domande che è probabile ci si possa porre pensando alla presenza in città della “cultura protestante” sono, tendenzialmente: in quale lingua, con quale linguaggio vogliamo e possiamo parlare? A chi, in quali modi?
Come prima cosa, noterei che partendo da questo presupposto rischiamo di lasciarci portare dalla fin troppo facile semplificazione per cui la “cultura” parla e la “diaconia” agisce. Le parole all’intelletto e le azioni alle mani. Un po’ come dire che la paglia va ai nomadi e le travi ai sedentari.
La controprova: se al posto di “cultura” o di “diaconia” usiamo la parola “testimonianza” tutto cambia. Vi proporrei, quindi, come prima cosa, di mantenere l’orizzonte della nostra discussione quanto più largo possibile, almeno in un primo tempo. Proviamo, per iniziare, a confrontarci brevemente su quale sia l’orizzonte comune della nostra testimonianza di cristiani e cristiane sul nostro territorio: infatti se è possibile (anche se non corretto, a mio parere) ipotizzare che la cultura si occupi solamente di analisi, studi, affermazioni e quant’altro, e che la diaconia si limiti invece all’azione, non è invece possibile “racchiudere”, incastonare la testimonianza in questo aut-aut. E la Chiesa, comunità locale e istituzione nazionale, è chiamata tanto alla parola che all’azione, tanto alla cultura che alla diaconia.
La natura della Chiesa, la sua missione, è quella di rendere testimonianza all’amore di Dio, in ogni linguaggio e ad ogni interlocutore. Fare cultura è fare testimonianza, così come lo è fare diaconia. Entrambe sono forme alternative della predicazione. I carismi, ci insegna il testo biblico, sono numerosi e diversificati. L’obiettivo condiviso, in ogni comunità di credenti in Gesù Cristo, è l’edificazione di una casa che accoglie, è quello di rendere testimonianza al mondo, per il mondo. Una testimonianza a più voci, che valorizzi ed utilizzi tutti i carismi presenti nella comunità non è solo più efficace: è un ritratto di Dio, un’imago Dei quanto più possibile inclusiva, vicina alla divina ricchezza e meraviglia.
Per questo motivo, credo, è fondamentale ciclicamente parlare, confrontarci su quale testimonianza vogliamo e siamo in grado di portare, come Chiesa Valdese, al territorio di Torino: tanto alla “società civile” quanto alle istituzioni; tanto a chi è in ricerca quanto alle altre Chiese, sorelle e compagne di cammino e alle realtà di fede altre, teologicamente più lontane, alcune delle quali ben conosciute, a fianco delle quali camminiamo da lungo tempo, e altre per nulla o quasi.
Forse, allora, oltre a chiederci in quale lingua, con quali linguaggi, rivolgerci al territorio, è importante anche non dimenticare di che cosa, di Chi vogliamo e sappiamo parlare; a chi, e per chi rendiamo testimonianza, e non ultimo, a nome di chi, di che cosa ci presentiamo nello spazio del dialogo pubblico.
Testimonianza, presenza, coralità.
La prospettiva da cui vi propongo di partire, allora, sulla quale credo sia importante riflettere insieme, è figlia della scelta di osservare la complessità e di rispettarla, di rifiutare le logiche dei due poli e dell’inconsistenza delle sfumature. Tutto, nella nostra società, ci spinge a vedere, capire, agire sempre solo in dinamiche di alternativa: questo o quello, una scelta o l’altra, un modo di essere o l’altro. Da figlia del protestantesimo riformato e valdese non posso che sottoscrivere l’appello ad essere convinti e radicali. Ma prima di essere convinti, prima di scegliere e di farlo in modo forte, visibile e convincente, sappiamo benissimo quanto sia importante capire, riflettere e analizzare le questioni.
Una presenza culturale protestante sul territorio di Torino e in rete con realtà affini alla nostra non ha e non dovrebbe avere una sola direzione, un solo indirizzo, una voce univoca. In questi pochi mesi da quando sono arrivata a Torino, una delle osservazioni che faccio con più convinzione è che la nostra voce, il punto di vista del protestantesimo, l’approccio proprio del protestantesimo nell’affrontare questioni di etica, di politica, di cittadinanza, alla laicità delle istituzioni e dei servizi sono ben più che semplicemente accolti: il nostro territorio ci aspetta, aspetta il nostro intervento, la nostra voce, il nostro parere. E “il nostro territorio” sono persone, comunità, associazioni, università, soggetti individuali e collettivi. In questo senso, la questione che ci chiama qui, oggi, è al cuore di quella che si chiama teologia pubblica.
Per questo, sono convinta che sia quantomai importantissimo diversificare i linguaggi e le voci, valorizzare le diverse competenze, condividere la missione di testimonianza e di presenza sul territorio: “Tutto quello che la tua mano trova da fare, fallo con tutte le tue forze” (Qoeleth 9:10).
La presenza culturale sul nostro territorio, allora, deve poter essere il più possibile laica, confessante, competente, consapevole del fatto che “presenza culturale” e “presenza di fede” possono essere anche tra loro autonome e diversificate, ma che comunque si integrano, e spesso, agli occhi di molti tra coloro che poco ci conoscono, coincidono, lo si voglia o no. Dev’essere una presenza che valorizzi le reti, che dia parola e spazio ai singoli ma anche alle istituzioni, secondo le competenze ed i contesti.
Il senso – inteso come significato e direzione – di tutto questo, è dato dall’annuncio dell’amore di Dio per ogni creatura. Il nostro interlocutore, allora, è ognuno, ognuna, individualmente e in quanto comunità, soggetto plurale. Noi siamo portatori e portatrici di un messaggio che non è “nostro”: un messaggio che ci ha accolti e preparati ad un cammino, e che ci chiede di diventare a nostra volta persone che accolgono e indicano cammini.
Elisabetta Ribet, PhD