E ordinò loro di non divulgarlo, affinché si adempisse quanto era stato detto
per bocca del profeta Isaia:
«Ecco il mio servitore che ho scelto; il mio diletto, in cui l’anima mia si è compiaciuta.
Io metterò lo Spirito mio sopra di lui, ed egli annuncerà la giustizia alle genti.
Non contenderà, né griderà e nessuno udrà la sua voce sulle piazze.
Egli non triterà la canna rotta e non spegnerà il lucignolo fumante,
finché non abbia fatto trionfare la giustizia.
E nel nome di lui le genti spereranno».
(Matteo 12, 16-21)
Nel nome di chi, di che cosa, riponiamo la nostra speranza? Non le piccole speranze quotidiane, quelle che possono servirci a tenere fino alla fine di una giornata, di un periodo più o meno lungo: quella Speranza unica, fondatrice e portatrice di nutrimento, quella piccola spezia, a tratti impercettibile, che rende saporita la nostra esistenza. Quella speranza che è luce nelle tenebre, acqua nel deserto.
Quale nome pronunciamo, quando abbiamo bisogno di aggrapparci al senso delle cose che facciamo, quel senso che troppo spesso ci sfugge, o ci appare lontano, astratto e incomprensibile? Nei nostri primi incerti passi di questo anno che inizia, un canto antico, tramandato per generazioni e da generazioni, di volta in volta modificato in alcuni ritmi, in alcune parole, ci raggiunge e ci viene rivolto. Un canto i cui accenti, pur simili e legati tra loro, cambiano di intonazione da una generazione all’altra, da una cultura all’altra. Eppure permane, viene tramandato, porta consolazione e senso di appartenenza. Così è dell’Evangelo di Matteo, nel suo riprendere il canto di Isaia. Così è dei nostri cantici, degli inni che abbiamo imparato e che ci vengono da tempi, culture, anime, discepolati diversi.
Matteo inserisce il primo di quelli che nel libro di Isaia vengono chiamati “canti del Servo” in una narrazione drammatica, in cui, nonostante la decisione da parte dei farisei di far morire Gesù, egli non si lascia prendere dal panico, dallo sconforto o dall’ira. Va altrove e continua a guarire, a cambiare radicalmente la vita di chi, comunque, lo cerca e lo segue. E l’antico canto, così intonato e riformulato, sussurra un nome: quello di un Dio che si incarna, si rende più che mai umano e sorprendentemente discreto, che ci chiede di non cedere, neanche noi, all’angoscia della debolezza e dell’abbandono, né alla rabbia, e nemmeno alla tentazione di dire di aver capito, di poter sapere tutto subito.
Un tempo opportuno arriva, il momento buono va atteso e riconosciuto. E nel contempo, riceviamo una rassicurazione: la fiamma già debole non verrà spenta, il fragile giunco che siamo non verrà spezzato.
Elisabetta Ribet, teologa valdese a Torino
Meditazione pubblicata sul numero di gennaio 2025 del Piccolo Messaggero, il bollettino delle Chiese valdese e battiste dell’area torinese. Chi fosse interessato a riceverne copia in PDF via email può farne richiesta a segreteria@torinovaldese.org.