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Lettera della pastora Bonafede al Presidente del Consiglio

La pastora Maria Bonafede ha scritto una lettera a Mario Draghi, Presidente del Consiglio dei Ministri, sulla vicenda di Moussa Balde, il giovane morto nel Centro per il rimpatrio di Torino. Ne riportiamo di seguito il testo:

“Caro Presidente, 
sono la pastora della Chiesa valdese di Torino e sento di doverle scrivere, anche a nome degli altri colleghi della chiesa valdese, e delle chiese battiste e luterana della nostra città, e a nome di molti membri delle nostre chiese, in merito al suicidio del giovane Moussa Balde, un ragazzo di 23 anni proveniente dalla Guinea, morto nel CPR della mia città. Sono giunta a Torino nell’estate del 2013 e una delle prime istituzioni che mi è capitato di visitare invitata da un piccolo gruppo di avvocati dell’associazione “LasciateCI Entrare” è stata quella che allora si chiamava CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione) di corso Brunelleschi, oggi CPR. Non ho mai potuto dimenticare il senso di desolazione e di orrore che quel luogo ha lasciato in me. Molto superiore delle impressioni ricevute nei molti carceri che ho conosciuto sul territorio italiano. 
Gli “ospiti”, come la direzione chiamava i reclusi, erano in casette che spuntavano nello sterrato polveroso e assolato, squallide e collocate, ciascuna, all’interno di enormi gabbie. I reclusi vedendo passare il piccolo gruppo di visitatori e visitatrici che si interessavano alle loro condizioni di vita, si aggrappavano alle grate per parlare con noi. Nell’istituto non avevano assolutamente nulla da fare, non c’era una biblioteca, né una palestra, né alcuna attività prevista che potesse occuparli. I loro panni erano stesi ad asciugare su corde improvvisate con le lenzuola arrotolate e precariamente tese tra la maniglia di una porta e due sedie all’esterno. L’impressione di essere di fronte a persone assolutamente smarrite e prive di diritti era palese. Forse anche per questo il suicidio del giovane Moussa Balde mi ha colpito tanto. Perché ho visto il luogo in cui è maturata la sua disperazione. Sulla questione è aperta un’inchiesta e non sta a me intervenire su un procedimento giudiziario che farà il suo corso. 
Onestamente non so neanche se lei sia la persona a cui rivolgere questi miei pensieri ma mi affido al suo ruolo e alla sua sensibilità per dichiarare il mio sconcerto per casi come quello di Moussa. 
Le considerazioni che vorrei porre alla sua attenzioni sono umanitarie e pastorali. Moussa è strato rinchiuso nel CPR dopo essere stato aggredito da tre uomini italiani a Ventimiglia che lo avevano preso a sprangate. Era una persona ferita e fragile, che viveva nel terrore del rimpatrio in Guinea e che, mentre era sotto custodia dello Stato italiano, non è stata protetta. 
Nei giorni passati al CPR Musa ha chiesto con insistenza perché, dopo essere stato malmenato e ferito, fosse stato rinchiuso in una struttura che lui percepiva come un carcere. Nessuno gli ha risposto adeguatamente e, nella solitudine della disperazione, si è tolto la vita. Qualche riga di cronaca, le consuete parole di circostanza e poi il caso è stato dimenticato. Fino alla successiva tragedia dell’immigrazione, alle foto dei cadaveri di bambini su una spiaggia libica o alle immagini delle imbarcazioni alla deriva, ormai vuote di migranti evidentemente morti annegati. 
Le scrivo perché apprezzo la determinazione con cui ha posto il problema delle migrazioni nel vertice europeo appena concluso e ha richiamato le istituzioni e gli stati della UE alle loro responsabilità. 
Ma al tempo stesso sento di doverle dire che questo non ci può e non ci deve bastare. Conosciamo bene gli argomenti opposti sul tema dell’immigrazione ma di fronte a storie come quelle di Moussa, come credente evangelica e come pastore, sento il peso del peccato che ci attraversa e che atterra la nostra coscienza e la nostra umanità: il peccato dell’indifferenza, del cinismo, della inoperosità, della rassegnazione. Il peccato che abbiamo finito per accettare come condizione normale perché non riusciamo a trovare soluzioni adeguate a un problema che riteniamo più grande di noi. Ma, almeno in una prospettiva cristiana, resta un peccato: un atto di ribellione contro la logica dell’amore di Dio in Cristo. 
La comunità di fede a cui appartengo ha sempre difeso la laicità e la sovranità delle scelte della politica. Ma anche la politica può avere un’anima, anzi la storia europea ci dimostra che la migliore politica è quella che ha saputo proteggere i valori dei diritti umani, della libertà individuale e collettiva, della solidarietà. 
Di fronte alle sbarre del CPR dove è morto Moussa, dov’è l’anima dell’Europa? Dove sono quei principi umani affermati nella nostra Costituzione e nei Trattati internazionali? Dov’è quell’umanità della politica che non cavalca le paure ma le contrasta; che denuncia le falsità e afferma i beni primari della vita e della libertà? 
Le tradizioni teologiche da cui proveniamo si fondano sui cardini evangelici della libertà e della verità. La buona politica a cui abbiamo diritto, pur nella sua autonomia laica, ha bisogno dell’una e dell’altra. E di fronte a scene come quella di un giovane suicida in un CPR sentiamo nostro dovere rivendicarle e richiamarle come stella polare dell’azione di chi governa. 
Con viva cordialità 
Maria Bonafede”

PDF: Lettera di Maria Bonafede al Presidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi

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