Il carattere redentivo della sofferenza immeritata nella vita e nel pensiero di Martin Luther King
Il tema della sofferenza è familiare al popolo afroamericano. Per secoli milioni di uomini, donne e bambini furono presi, guardati, apprezzati, venduti e comprati come fossero oggetti, merce. Anche dopo l’abolizione della schiavitù (1865), le così dette leggi Jim Crow ricordavano con una serie di divieti e di rigide separazioni tra bianchi e neri, l’inferiorità e la soggezione degli afroamericani. La sofferenza fu realtà familiare nella vita del nero fino ai tempi di M. L. King, in particolare nel Sud degli Stati Uniti, dove più forte era la violenza razzista.
A scanso di equivoci, va detto che, in particolare le teologhe femministe e womanist, hanno richiamato il carattere blasfemo di una teologia che riconosce valore redentivo alla sofferenza immeritata. Una tale affermazione implica che Dio stesso vuole la sofferenza umana, o se si preferisce, che Dio stesso vuole che qualcuno, un popolo, un genere, patisca sofferenza per mano di un altro. Nella critica femminista tale dottrina oltre a costituire un oltraggio al messaggio biblico che afferma la bontà di Dio come essenziale (Dio è amore), può divenire anche un pericoloso strumento nelle mani degli oppressori che possono convincersi, più o meno in malafede, che le loro violenze hanno una giustificazione teologica, ritenendosi così, erroneamente instrumentum Dei nei confronti delle loro vittime.
Fatta questa precisazione, vorrei proporre l’analisi di un testo in cui M. L. King parla del carattere redentivo della sofferenza immeritata per comprendere il senso che egli voleva dare a questo concetto, nel contesto della sua vita e del suo impegno per i diritti civili dei neri d’America.
Si tratta del libro Stride Toward Freedom (1958) nel quale si distinguono due parti fondamentali: nella prima vi è una cronaca minuziosa del boicottaggio degli autobus di Montgomery del 1956. Nella seconda parte, King si sofferma sulla strategia nonviolenta come metodo per ottenere la fine delle leggi Jim Crow. È qui che il libro diventa manuale d’istruzione alla nonviolenza, ma anche occasione per una riflessione filosofico-religiosa delle motivazioni del movimento.
Durante il lungo boicottaggio degli autobus, nelle chiese della città, in primo luogo battiste, c’erano incontri infrasettimanali in cui si offriva una formazione biblica e politica: si cantava molto, si pregava, e infine c’erano i Pep-talk (messaggi energizzanti, incoraggianti) durante i quali erano rafforzati gli ancoraggi biblici e teologici della nonviolenza. Sera dopo sera i neri erano aiutati a elaborare una strategia che rifuggisse l’odio, e preparati a patire la violenza dei nemici, se necessario, rifiutandosi di infliggerla ad altri. Scrive King: «L’odio produce altro odio; la violenza produce altra violenza; amarezza e cattiveria producono altra amarezza e cattiveria. Noi invece dobbiamo andare incontro alle forze dell’odio col potere dell’amore, dobbiamo andare incontro alla forza fisica, con la forza d’animo. Il nostro scopo non è quello di umiliare l’uomo bianco, ma conquistare la sua amicizia e comprensione».
Più avanti nel libro King ci rende partecipi di un altro episodio in cui la scelta della nonviolenza, nella sua stessa vita, lo spinge a farsi carico della sofferenza immeritata prodotta dall’odio razziale. Si tratta di un attentato dinamitardo fallito, alla sua casa. La moglie e la figlia molto piccola erano con lui ad Atlanta. Quando King arriva a casa vi trova una folla in grande tensione. Sarebbe bastata una parola a far esplodere una rivolta violenta. Queste invece furono le parole di King: «Amici, non dobbiamo restituire odio con odio. Lo so che questo è un consiglio difficile da seguire. Specialmente se come in questi giorni si è stati vittima di una decina di attentati dinamitardi. Ma questa è la via che ci mostra Cristo: la via della croce. Dobbiamo credere, fratelli, che in qualche modo, la sofferenza immeritata sia redentiva».
Qui appare più esplicito il nesso con la teologia del discepolato della croce di Cristo. Il cristiano segue Gesù nel cammino verso la croce e l’ingiusta sofferenza inflittagli non lo induce a rinunciare alla sua lotta con gli strumenti dell’amore.
Il Gesù del Sermone sul Monte è molto presente in King, anche attraverso l’esegesi di Gandhi, suo maestro anche se non cristiano. Per King, Gandhi era stato il primo a dimostrare la praticabilità politica dell’amore per il nemico di cui aveva parlato Gesù (Matteo, capitoli 5-7). La sofferenza dunque è una probabile conseguenza della scelta di discepolato radicale, alla quale il cristiano non deve sottrarsi.
Più avanti, King aggiunge due elementi fondamentali per la comprensione del concetto di sofferenza nel suo pensiero e nella sua lotta. Il primo è che l’accettazione della sofferenza immeritata, finalizzata però alla resistenza al male del razzismo, contribuisce a costruire l’autostima del popolo nero: può essere debole, e lo è davanti a tante ordinanze di giudici locali e di sindaci, ma è grandemente forte nella sua capacità di sopportare senza piegarsi, senza indietreggiare dalla lotta. Non solo: questo atteggiamento determinato e coerente ha anche lo scopo di svelare l’immoralità del bianco a se stesso. La sofferenza immeritata in questo senso diventa redentiva sia per il nero sia per il bianco. Parafrasando la filosofiagandhiana, King dirà: «Fateci quello che volete e noi vi continueremo ad amare. Bombardate le nostre case e minacciate i nostri figli; mandate pure i vostri sicari incappucciati nelle nostre comunità e tirateci in mezzo alle strade con le vostre violenze, colpendoci e lasciandoci al suolo mezzi morti, e noi vi ameremo ancora. Ma noi vinceremo presto con la nostra capacità di soffrire. E nel conquistare la nostra libertà faremo talmente appello ai vostri cuori e alle vostre coscienze che vinceremo voi stessi nella nostra lotta».
Dunque, per King la dottrina del carattere redentivo della sofferenza immeritata è riconducibile a livello personale ed esistenziale, come anche a livello sociale e politico, ad una forma di resistenza contro l’ingiustizia del razzismo. La sofferenza in ultima analisi, è quella di cui il discepolo è pronto a farsi carico in nome della sua obbedienza al Cristo della croce. Tuttavia tale lotta è ingaggiata nella piena convinzione che l’assistenza del Signore porterà il credente e il popolo alla vittoria sull’ingiustizia.
L’amore per il nemico diviene così un’arma dei forti e non atto acquiescente del rassegnato. Esso è strumento per una resistenza anche politica alle strutture del male. Nel corso della lotta, chi sarà capace di non lasciarsi contaminare dal risentimento, dallo spirito di vendetta e dalla violenza, mostrerà di essere il più forte e sarà in grado di dimostrare la bruttura del comportamento razzista e violento.
E noi? Mi chiedo se la nostra situazione, indubbiamente molto diversa, di chiese garantite, che non conoscono affatto, se non in vaghi ricordi del passato, le persecuzioni e le vessazioni, non ci richiami a un dato diverso, che è la nostra scarsa capacità di esporci a un discepolato radicale e meno che mai alle sofferenze che questo comporta. Spesso i nostri anziani fanno riferimento al fatto che non abbiamo più nessuna idea di che cosa significhi soffrire per l’evangelo. Mi chiedo se in questo non vi sia un elemento di verità. Certo, nessuno può né cercare né auspicare i tempi della persecuzione, e tuttavia forse neppure dovremmo essere così timorosi di ogni contrarietà per noi e per i nostri figli.
Concludo con un riferimento al libro di Marinetta Cannito Hjort, La trasformazione dei conflitti, pubblicato di recente dalla Claudiana, che va proprio nella direzione della formazione nonviolenta e teorico-pratica dei mediatori e mediatrici. Imparare le tecniche, fare degli esercizi, apparteneva, come abbiamo visto, alla strategia del movimento di King. Non si dimentichi però, che anche il solo tentativo di mediare, rischia di trascinare chi compie questo sforzo dentro il conflitto, e se non si ha una chiara coscienza del carico di sofferenza che ne può derivare, si rischia di rimanerne profondamente segnati.
Cercare di trasformare un conflitto che contiene in sé forti elementi di ingiustizia strutturale può scatenare reazioni anche violente. L’iniquità cerca, con tutte le sue forze, di auto- perpetuarsi. Sappia però, chi si impegna per una giustizia non vendicativa, che chi accetta di bere il calice amaro della sofferenza immeritata, non mancherà di ricevere la sua mercede, fosse anche solo il diritto di sperare nella vittoria finale della vita.
Massimo Aprile
Tratto dal Settimanale Riforma n. 14 del 6 aprile 2018